Giacomo Buoncompagni
Università degli Studi di Firenze
La pandemia di Covid-19 ha colpito inaspettatamente anche il mondo del giornalismo e i giornalisti. Vittime questi, soprattutto da un punto di vista operativo e reputazionale.
Come ben evidenziato dalla rivista scientifica AMA Journal of Ethics il ruolo del giornalismo è cruciale nei casi di epidemie e pandemie. Queste ultime, in particolare, sono situazioni di crisi che “colpiscono” non solo la salute pubblica, ma anche l’informazione.
Dopo due anni e mezzo la copertura mediatica mondiale è in buona parte concentrata sulla diffusione del nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2) e le sue numerose varianti.
Fare informazione in un momento di incertezza ed emergenza, come quello che abbiamo conosciuto a partire da fine febbraio 2020, comporta notevoli difficoltà per i giornalisti, soprattutto non scientifici, in quanto hanno la responsabilità di coprire l'evoluzione dell'emergenza (sanitaria, nel caso in questione) in maniera corretta, aggiornata e verificata, per non sminuire la gravità della situazione e al contempo alimentare la paura.
Dall’inizio dell’attuale crisi pandemica è stato un susseguirsi di eventi pubblici annullati, di accessi vietati o limitati, di conferenze stampa virtuali e smart working che hanno caratterizzato anche la quotidianità delle redazioni giornalistiche.
Si sono moltiplicati gli eventi online e quelli più di natura istituzionale, spesso “chiusi” agli organi di informazione, dove gli organizzatori fornivano ai giornalisti accreditati solo qualche comunicato e qualche immagine (le cosiddette cartelle stampa).
In Germania, secondo quanto affermato dal direttore della redazione berlinese dell’Afp Yacine Le Forestier, alcuni eventi politici si sono trasformati addirittura in “spettacoli”, con la diffusione di interminabili filmati autocelebrativi da parte del governo, senza domande da parte del pubblico o della stampa.
Negli Stati Uniti le restrizioni sanitarie hanno avuto come principale conseguenza la limitazione delle interviste al Presidente Joe Biden durante la campagna elettorale.
Stessa cosa nelle sedi istituzionali di Bruxelles durante il Consiglio Europeo.
Con il diffondersi del virus i giornalisti si sono ritrovati senza più la possibilità di fotografare la presidente Ursula von der Leyen al di fuori delle rare apparizioni in sala stampa.
Situazioni simili non sono mancate anche Italia.
Sono noti a tutti i numerosi bollettini trasmessi in diretta dalla Protezione Civile alle ore 18.00 di ogni giorno nei primi mesi di Covid-19; cosi come gli interventi serali, comunicati alla stampa con poco preavviso, del Presidente del Consiglio, spesso chiusi anche ai giornalisti.
Durante la pandemia spesso gli eventi mediatici globali sono stati coperti da un pool, compresi i comizi delle campagne elettorali che, in ogni caso, sono stati di piccole dimensioni. La “pratica del pool” ha permesso di affidare la copertura di una notizia a un numero ridotto di giornalisti, che si alternavano e condividevano la loro produzione con le altre redazioni. La conseguenza di questa modalità di fare informazione è che tutti i media finiscono con pubblicare un prodotto identico, privo della ricchezza dei punti di vista differenti.
La mancanza, dunque, di un margine di manovra per gli operatori dell’informazione e una comunicazione senza filtri sui social network, già sovraccarica prima della pandemia, hanno alimentato flussi di disinformazione sanitaria che in pochi giorni hanno invaso l’universo digitale.
È noto, inoltre, come la pandemia sia riuscita anche a creare un terreno fertile per complottisti e no vax, che hanno seminato la confusione e amplificato il loro messaggio anti-vaccino giocando sulle paure legate alle misure sanitarie prese e ai dubbi espressi da qualche esperto apparso nei salotti televisivi.
Viene dunque da chiedersi: esiste un “protocollo” da seguire per poter fare buona informazione durante una crisi sanitaria? E quale comportamento dovrebbe tenere un giornalista professionista?
Helen Branswell, giornalista canadese esperta di malattie infettive e salute globale, a partire dal 2003 si è ritrovata a coprire la diffusione dell’epidemia di SARS a Toronto.
Durante una intervista riportata dalla testata The Journalist’s Resource dell’Harvard Kennedy School (2017), Branswell ha fornito una serie di consigli su come fare informazione durante una crisi sanitaria.
La prima riflessione inerisce le informazioni che possono modificarsi nel tempo[1]. «All’inizio di un’epidemia non tutto è noto; le persone devono capire che se le informazioni ricevute cambiano, non è necessariamente perché gli si sta nascondendo qualcosa. È perché con il tempo si sa di più», dice Branswell. Questa consapevolezza dovrebbe acquisirla anche i giornalisti: «Devono sapere che le conoscenze che hanno [sull’epidemia] possono cambiare, devono essere pronti a questi cambiamenti e includerli nel lavoro giornalistico».
E’ importante inoltre familiarizzare con l’epidemiologia e le modalità di trasmissione di base delle malattie infettive, comprendere il significato di espressioni tecniche come “periodo di incubazione”, “varianti”, “trasmissione diretta o indiretta”, dal momento che le malattie infettive tendenzialmente seguono degli schemi di propagazione.
Conoscere i modelli di trasmissione aiuta a comunicare al pubblico il rischio di un’epidemia, mentre sapere quali sono i fondamentali dell’epidemiologia aiuta la preparazione delle interviste, per renderle più precise e mirate e scegliere con accuratezza il soggetto esperto da coinvolgere.
A tal proposito Branswell suggerisce di controllare l’effettiva competenza degli esperti da sentire, magari incrociando le risposte con quelle di altri, dal momento che, avverte la giornalista, durante le epidemie compaiono moltissimi wannabe experts, cioè dei sedicenti esperti.
Dunque, come sarà l’informazione dopo la pandemia?
La crisi sanitaria ha provocato per quasi tre anni un’enorme chiusura dell’accesso alle fonti; in parte legittimo (con riferimento alle precauzioni sanitarie, alla presenza di persone fragili ecc..), ma in parte illegittimo, se pensiamo ai numerosi casi di disinformazione e censura.
Ma questo accesso sarà ipristinato? In tutti i Paesi? E con quali tempistiche?
Per il segretario generale di Reporter senza frontiere (Rsf), Christophe Deloire, il Covid-19 ha rappresentato in alcuni Stati un’occasione per limitare la libertà di stampa.
Attualmente, secondo Rsf , l’esercizio del giornalismo è ormai “totalmente o parzialmente bloccato” in più di 130 paesi. A questo si aggiungono le minacce se non gli omicidi: 50 sono i giornalisti uccisi nel 2020 secondo i dati dell’organizzazione di difesa della libertà di stampa.
Dopo la tragedia pandemica sarà necessario provare a riguadagnare il terreno perduto in merito alla libertà di informare. Una sfida che riguarda tutti i giornalisti, di tutte le testate, di tutto il mondo, ma anche i governi e i cittadini interessati a difendere uno dei pilastri della democrazia: la libertà di informazione.
Proposta di attività in classe
I temi affrontati in questa scheda sono sicuramente di interesse anche per il mondo scolastico, le insegnanti e gli studenti.
Si suggerisce di instaurare un dialogo in classe sul tema della libertà di informazione e la rappresentazione mediatica del covid-19, stimolato magari da infografiche o lettura dei quotidiani in classe.
In seguito, dividendo la classe in piccoli gruppi, potrebbe essere interessante contattare giornalisti locali e chiedere loro, sottoforma di testimonianza o intervista, come hanno lavorato nel periodo più intenso della pandemia.